Essere Medico

Giulio-TarroSono un medico. Quando ho cominciato ad esserlo, più o meno cinquanta anni fa, questo termine indicava uno schivo professionista che, in un riservato silenzio, si limitava a mettere la sua conoscenza e il suo acume al servizio del malato. Non gli si chiedeva nient’altro. La malattia era una faccenda squisitamente privata, la discrezione il marchio della Medicina. E rarissimo era, fino a non molti decenni fa, l’opinione di qualche medico (che non fosse l’inflazionato consiglio su come scampare qualche malanno) o, addirittura, il pronunciamento contro un suo collega. Le eccezioni si limitavano al dottor Manson de “La cittadella”, di televisiva memoria, o (beninteso), a Semmelweis, Pasteur, Jenner, Sabin.., e qualche altro nome che, probabilmente, non dice niente ai più.

Oggi, invece, sempre più medici dilagano sugli schermi televisivi; in alcuni casi tirati per la giacca a discettare su psicosi, più o meno “costruite” dai mass media, come la Mucca Pazza, la SARS o l’Aviaria, in altri, ad alimentare o lenire quella ’”ansia da salutismo” forse inevitabile in una popolazione, come quella italiana, che non fa più figli e che è sempre più vecchia.

Se questo irrompere della Medicina nel dibattito di tutti i giorni (si pensi alle mobilitazioni pro o contro l’uso delle cellule staminali o la vivisezione) rappresenta, forse, uno dei più significativi passi in avanti della cultura scientifica in Italia, dall’altro potrebbe essere il segnale di un rapporto sbagliato con il nostro corpo e la nostra salute. “Se i mortali si guardassero da qualsiasi rapporto con la saggezza, la vecchiaia neppure ci sarebbe. Se solo fossero più fatui, allegri e dissennati godrebbero felici di un’eterna giovinezza. La vita umana non è altro che un gioco della Follia” sentenziava Erasmo da Rotterdam. Ed è proprio la mancanza di questa leggerezza, di questa innocente irresponsabilità, di questa “follia” a caratterizzare pesantemente oggi il rapporto con la nostra salute. Un rapporto oggi scandito da cataste di analisi e screening, spesso inutili, in qualche caso controproducenti; da fiumi di acqua minerale bevuti nell’illusione che siano capaci di chissà quale effetto benefico; dai sempre più numerosi psicofarmaci somministrati a bambini e adolescenti considerati “iperattivi”” e quindi “malati”… E tutto questo mentre, anche nei paesi occidentali, la progressiva privatizzazione del sistema sanitario impedisce a milioni di persone l’accesso alle più elementari cure.

La cosa che mi ha sempre affascinato nella mia professione di medico e di ricercatore (anzi “scienziato”, mi si passi questo termine che, solo in Italia è ammantato di un’aureola quasi sacrale) è, oltre al fascino della scoperta scientifica, il dovermi confrontare con innumerevoli ammalati: tutti diversi per età, storia, cultura, condizioni sociali, inclinazioni dell’animo, ecc., e nello stesso tempo tutti uguali di fronte alla malattia e, spesso, alla morte. Del resto, la malattia mette a nudo le verità e il medico , a costante contatto con queste verità, può essere capace, oltre che di condivisione e di amore, di cogliere quelle altrimenti impercettibili sfumature dell’animo umano. Non a caso la letteratura di tutti i tempi è costellata da scrittori che erano, prima di tutto, medici: l’evangelista Luca, Anton Cechov, Archibald Cronin, Arthur Conan Doyle, Carlo Levi… solo per citare i primi che mi vengono in mente. Del resto, che cos’è una diagnosi, se non un’intuizione e una ricerca sempre suffragate dal dato reale? Non altrimenti la Letteratura, dove ideazione e fantasia si incontrano sia con la realtà, sia con le regole della parola.